L’Italia povera di giovani rischia di trovarsi anche con giovani sempre più poveri

di Luciano Monti, articolo tratto da lucianomonti.wordpress.com/

L’Osservatorio Politiche Giovanili, curato dalla Fondazione Bruno Visentini, denuncia oramai da diversi anni l’intensità del divario generazionale in Italia a danno delle nuove generazioni. Divario che si misura esaminando il grado di difficoltà che un giovane deve affrontare per raggiungere le principali tappe che lo conducono a una vita autonoma e di realizzazione personale e professionale. Queste tappe sono rappresentate dalla conquista di una dimora autonoma, un lavoro dignitoso e una maternità/paternità responsabile, e sono sempre più difficili da raggiungere in tempi ragionevoli e da parte di tutti i giovani.

Usando una metafora, a un divario generazionale alto corrisponde un muro altrettanto alto. Muro che solo in pochi potranno superare e a prezzo di grandi sacrifici. Un ostacolo da saltare si misura normalmente in centimetri, l’Indice del divario generazionale valuta quest’ultimo in punti, prendendo come riferimento il 2006. La scelta di questa data non è casuale, in quanto rappresenta l’anno precedente l’avvento della prima delle due grandi crisi: quella finanziaria con annessa coda velenosa della lunga recessione.

Dal 2006 al 2014 l’indice si è impennato di oltre una trentina di punti, come a dire che l’ostacolo da saltare è passato da 100 centimetri a 138 centimetri. Gli sportivi, è vero, saltano quasi il doppio, ma non tutti, anzi, solo una piccolissima minoranza va alle olimpiadi e anche un centimetro per le “persone normali” può fare la differenza.

La pandemia ha sferrato il secondo colpo, spostando l’asticella ancora più in alto, spingendola a 142 punti (o centimetri se si continua con la metafora), a conferma che se, sotto il profilo sanitario le persone più avanti negli anni hanno pagato di gran lunga il prezzo maggiormente elevato, sotto il profilo socioeconomico sono stati i giovani a firmare il conto più salato.

Questa situazione non solo mina il naturale patto di equità sociale e il principio della sostenibilità, che imporrebbe a una generazione di lasciare a quella successiva un mondo migliore  o quantomeno non peggiore, ma mette a rischio sia la sostenibilità delle architravi del welfare che il nostro Paese ha faticosamente costruito sia la tenuta del “welfare familiare” che sino ad ora ha visto impegnati genitori e nonni come prestatori non solo di cura, ma anche di beni e servizi.

Esaminando l’andamento delle rilevazioni dell’Osservatorio Politiche Giovanili si scopre che a determinare maggiormente il divario generazionale sono da anni sempre le stesse variabili fuori controllo, rilevate prima della pandemia, a riprova che le debolezze strutturali sono quelle che maggiormente determinano la vulnerabilità alle crisi sistemiche. In estrema sintesi a generare il divario sono la mancata parità di genere, il gravame eccessivo del sistema pensionistico sui conti dello Stato, nonché le precarie condizioni di reddito, ricchezza e welfare, credito e risparmio (sempre meno) a disposizione dei giovani.

Il programma NextGenerationEU, con i suoi 750 miliardi di euro, rappresenta la principale risposta dell’Europa al superamento della crisi pandemica e il riconoscimento di 191,5 miliardi di questi all’Italia conferma il ruolo da protagonista riconosciuto al nostro Paese nel Piano di ripresa e resilienza.

Con altrettanta chiarezza l’Unione europea, che ha voluto titolare il programma proprio alle “nuove generazioni europee”, ha previsto tra le sei principali missioni dei programmi di spesa nazionali quella dedicata alle “politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani, come l’istruzione e le competenze”. In altre parole, priorità assoluta ai bambini, ai ragazzi, agli studenti e ai giovani lavoratori, con uno sguardo anche ai nascituri. Il 2030 è alle porte e le sfide lanciate dall’Agenda delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile tracciano percorsi in salita e ricordano appuntamenti ai quali non possiamo più mancare.

Il nostro Paese, purtroppo, non ha ritenuto necessario enucleare le politiche per il contrasto al divario delle giovani generazioni all’interno del proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), limitandosi, peraltro anche in tema di pari opportunità, a prevedere una generica quanto incontrollabile “priorità trasversale”.

Se per le regioni meridionali il criterio di ripartizione delle risorse è stato chiaramente definito (il 40% delle risorse del PNRR), per i giovani non è stato fissato nessun parametro se non quello che, in caso di aggiudicazione di appalti finanziati con risorse europee, le imprese dovrebbero assumere almeno un giovane su tre. Questa misura, oltre che facilmente eludibile (ricorso a micro-appalti “professionisti” ecc.), è inefficace, perché alla fine del lavoro i nuovi arrivati, assunti sicuramente con contratti a termine, se ne torneranno a casa. Non solo, salvo l’ipotesi di saturazione della propria capacità produttiva, di questi tempi assai rara, nessun imprenditore assumerà nuovi lavoratori, ricorrendo piuttosto alla sua attuale forza lavoro.

Basti pensare che per gli ultimi tre trimestri del 2020 i giovani under 35 (che più così tanto giovani non sono) che non lavoravano, non studiavano e non erano in formazione, cioè i cd. NEET, erano sempre sopra la soglia dei tre milioni. A considerare solo gli under 30, in pratica quasi 1 su 4, ma addirittura quasi un terzo se si prendono in esame solo i giovani del Sud. Dati che fanno dell’Italia la “Cenerentola” dell’Europa e che minano le prospettive di sviluppo soprattutto alla luce di quanto si dirà nei prossimi due paragrafi.

Il PNRR rischia di rappresentare una colossale occasione perduta per provare a riequilibrare l’equità generazionale, che non rileva solo per questioni etiche, ma anche per l’impatto che una forte iniquità ha sul tessuto economico e sociale del nostro Paese.

L’Italia povera di giovani rischia di trovarsi anche con giovani sempre più poveri. Le nuove generazioni più che in passato hanno necessità di aggiungere alla pubblica anche una pensione integrativa, e sono però anche la generazione nata nel secondo dopoguerra che sperimenta maggiori incertezze occupazionali associate a reddito basso e discontinuo. La conseguenza è quella di rinviare continuamente autonomia, formazione di una propria famiglia, oltre che decisioni in ambito previdenziale.

Se si continua a non investire nel capitale umano delle generazioni più giovani, queste presto non saranno in grado, una volta mature, né di sostenere se stesse né coloro che si sono ritirati dal mondo del lavoro, in un quadro di progressivo arretramento del nostro Paese il quale, giova ricordarlo, sin prima della pandemia arrivava da venti anni di crescita del PIL prossima a zero.

(Estratto dal saggio L’impatto intergenerazionale di una mancata strategia per le politiche giovanili, di Luciano Monti e Alessandro Rosina, incluso nel volume Pensare la longevità dopo la pandemia, curato da Auser Emilia-Romagna, edito da Editrice Socialmente, Bologna 2022)

Photo by Jesús Rodríguez on Unsplash

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